Dalla legge al potere: perché la nuova riforma della giustizia mette a rischio trasparenza, equità e indipendenza del sistema giudiziario
- redazioneilgazzett
- 2 nov
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La riforma della giustizia approvata dal governo si presenta come un intervento di efficienza e modernizzazione. Ma, al di là degli slogan, molti segnali fanno pensare a un passo indietro, non a un progresso. Dietro la retorica del “cambiamento”, si intravede un disegno più profondo: ridurre l’autonomia dei magistrati, limitare gli strumenti di indagine e rafforzare il controllo politico su un potere che, per Costituzione, dovrebbe restare indipendente.
Il primo nodo riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura. Il nuovo sistema di nomina e la crescente influenza del potere esecutivo rischiano di intaccare la separazione dei poteri. È un principio semplice ma fondamentale: chi governa non può scegliere o condizionare chi deve giudicarlo. La giustizia non è un’appendice della politica, né un suo strumento. È una garanzia per tutti, anche per chi governa oggi e sarà giudicato domani.
La promessa di “snellire” i processi si traduce, nei fatti, in ostacoli maggiori per chi indaga. Le limitazioni alle intercettazioni, la riduzione dei tempi per le inchieste e le nuove regole sulle archiviazioni rischiano di rendere più difficile perseguire reati complessi come la corruzione, la criminalità organizzata o i crimini economici. Non è una giustizia più veloce: è una giustizia più cieca.
Il rischio maggiore, però, riguarda i cittadini. Con meno risorse, personale ridotto e costi più alti, l’accesso alla giustizia diventa sempre più difficile per chi non ha mezzi. Si allarga la distanza tra chi può permettersi avvocati e ricorsi, e chi invece rinuncia a far valere i propri diritti. Il risultato è una giustizia a due velocità, in cui i forti vincono due volte: nella vita e nei tribunali.
Il punto dolente, che la riforma ignora, è strutturale: la mancanza di investimenti. Da anni la magistratura segnala carenze di organico, infrastrutture obsolete, arretrati ingestibili. Senza risorse, nessuna riforma può funzionare. Servirebbero nuovi magistrati, digitalizzazione, formazione, uffici più efficienti. Ma su tutto questo la riforma tace.
Molti osservatori vedono nella riforma un intento politico: proteggere chi è al potere. Come ha detto Giuseppe Conte in un recente comizio, “il governo si preoccupa di rendere intoccabili i politici, ma non del crollo dei salari, della pressione fiscale o dell’aumento degli sbarchi”. È un giudizio duro, ma che coglie il vulnus: mentre il Paese affronta disuguaglianze e crisi, il governo sembra concentrato a difendere se stesso. Il rischio è tornare a una stagione in cui la giustizia era ostaggio della politica, e non presidio della democrazia.
L’Italia ha bisogno di una giustizia più efficiente, non più obbediente. Riformare il sistema è necessario, ma solo se l’obiettivo è rendere più equo, accessibile e indipendente il diritto dei cittadini a essere tutelati. Questa riforma, invece, sembra concepita per limitare i controlli, silenziare i giudici e riscrivere le regole in favore dei potenti. In un momento storico in cui il tessuto democratico è già sotto pressione, accettare una riforma che indebolisce la giustizia significa consegnare i cittadini all’arbitrio del potere.
La storia dell’Italia insegna quanto sia pericolosa la complicità tra potere e impunità. La memoria storica non è un peso, ma un faro: ricordare gli errori passati serve a proteggere il futuro. Se la giustizia vacilla, vacilla l’intera democrazia. È quindi dovere di tutti, istituzioni e cittadini, vigilare e resistere, perché i diritti conquistati con sacrificio non diventino mai merce di scambio.



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